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Monte Grabiasca e Diavolo di Tenda (quasi). Un week end che profuma di avventura

Tutto ha avuto inizio con un libro, ma non un romanzo o un saggio, tutto ha avuto inizio con una guida, una guida di scialpinismo ricevuta in regalo da mio padre per il Natale di qualche anno fa.

Era una guida fin troppo ambiziosa per il me di allora, “Scialpinismo e freeride” il titolo, una raccolta di gite trentine che prevedono quasi esclusivamente itinerari su pendii ripidi ed esposti. Allora per me sembrava impossibile poter fare certe gite, vuoi per l’esperienza vuoi per la capacità tecnica di affrontare certi itinerari, ma anche per le località in cui si trovavano i percorsi suggeriti.

Passa poco meno di un anno e mi trovo davanti un’altra guida, che questa volta sembra più “accessibile”, una guida sulle gite scialpinistiche in Orobie. “Be dai, almeno queste sono un po’ più abbordabili” penso e così non esito a comprarla. Inizio subito a sfogliarla e mi accorgo che dalle nostre parti si possono trovare percorsi molto affascinanti e per nulla banali. Dopo averla letta tutta però, alcune gite mi colpiscono più di altre, tra cui molte in Val Brembana.

Scopro così che la conca del Calvi è un ottimo posto per fare moltissime gite, a costo però di dormire una notte nel locale invernale del rifugio. L’idea subito mi stuzzica, soprattutto perché il tutto profuma di avventura, come in quei film della Red Bull che vedo ogni tanto per sognare un po’.

Ho dovuto far passare un paio di stagioni secche, ma finalmente quest’anno i tempi erano maturi e ho colto l’attimo.

A inizio stagione  le premesse erano buone, ma dopo due mesi avari di precipitazioni, quasi da far pensare ad un finale anticipato di stagione orobica, arriva finalmente una perturbazione che prende in pieno anche le montagne di casa e penso sia ora di attivarsi .

Prendo la guida e vedo quali itinerari si possono fare in due giorni e ovviamente punto alto, altissimo, forse troppo (come poi mi accorgerò)… Grabiasca e Diavolo di Tenda, due montagne che ho visto mille volte ma che mai avrei pensato di poter fare in modalità scialpinistica. Capisco subito che l’idea che ho in mente potrebbe giustamente scoraggiare i più ( è una “ravanata” colossale dopotutto, tra freddo, avvicinamento e materiale da portare) e faccio una ricerca mirata dei possibili partecipanti. Trovo subito la disponibilità di Mazzo, da poco entrato nelle file del gruppo scialpinisti con Nando e co. e ovviamente Ferra, sempre voglioso di nuove avventure.

 

 

E’ una settimana intensa quella della preparazione, con continui scambi di messaggi vocali “ma tu lo porti questo?”, “ma non è che mi pesa un po’ troppo?”, “Eh dai, prendo anche il vino!”. Finché finalmente arriva il giorno della partenza.

Sabato 7 partiamo carichissimi da Carona con partenza molto “merenderos” alle 9 alla volta del Rifugio Calvi. Subito il caldo si fa opprimente e silenziosamente risaliamo la strada forestale in un bosco ancora immacolato dalle nevicate dei giorni precedenti. Lungo la via incontriamo molti ciaspolatori che ci aprono la strada ma capiamo subito che dal rifugio in poi la traccia dovremo batterla noi!

Belli carichi alla partenza. Ferra, Mazzo, Io.

Belli carichi alla partenza. Ferra, Mazzo con la tettoia e Io.

Verso mezzogiorno arriviamo alla prima meta di giornata già abbastanza provati dal peso dei nostri zaini (tranne Mazzo, che come al solito ha lo zaino più leggero di tutti) e ne approfittiamo quindi per riposarci un po’, mangiando qualcosa e lasciando nel locale invernale il necessario per la notte, tenendo solo l’indispensabile per la gita che ancora non è terminata.

Dopo aver sgranocchiato le nostre barrette super chimiche e aver scambiato qualche parola con i ciaspolatori arrivati alla loro meta di giornata, facciamo un piccolo briefing per decidere bene come batter traccia per arrivare alla base del canalone della parete ovest oltre il quale, la via da seguire è più intuibile.

Iniziamo a segnare i pendii immacolati con la cicatrice lasciate dalla nostra traccia e dopo qualche saliscendi lungo i dossi della conca del Calvi raggiungiamo la base della gita vera e propria. In poco tempo, la traccia di Mazzo lungo il canyon ci porta ai piedi dei pendii occidentali del Grabiasca, dove dobbiamo decidere se raggiungere il colletto e proseguire lungo la cresta, oppure traversare verso sinistra e risalire tutta la “pala” con gli sci ai piedi.

Dopo aver valutato le condizioni del manto nevoso, tutto sommato stabile, decidiamo che è meglio conoscere la via dalla quale scenderemo e quindi iniziamo il traverso che ci porta alla base del passaggio chiave della gita, dove un canalino via via più stretto segna l’inizio di un continuo togli/metti tra sci e ramponi che ci accompagnerà fino alla vetta.

Togli, metti, togli, metti, ma alla fine la vetta si avvicina!

Togli, metti, togli, metti, ma alla fine la vetta si avvicina!

Raggiungiamo finalmente la cima a pomeriggio inoltrato, con il cielo che inizia a tingersi appena con i colori del tramonto e rimaniamo poco tempo a goderci il panorama tanto sudato, che spazia a 360° sull’arco alpino. Scendiamo di qualche metro per poter prepararci più comodamente e iniziamo finalmente a sciare!

Il panorama da lassù è infinito!

Il panorama da lassù è infinito!

Anche se aveva nevicato da poco ovviamente non troviamo la polvere ma piuttosto un misto di neve crostosa e polvere pesante che ci rende il lavoro abbastanza complicato, ma tutto sommato non mi posso lamentare, perchè i pendii sotto la cima sono un qualcosa di unico!

Non ci fermiamo troppo a fare foto, video o a interrogarci su quale esposizione abbia la neve migliore e in poco più di dieci minuti percorriamo un tratto che abbiamo impiegato almeno un’ ora a risalire e raggiungiamo così i pendii sopra il canalone, che non vedevamo l’ora di sciare.

Lo stavamo aspettando perché, salendo, ne avevamo capito le potenzialità, dato che, essendo abbastanza riparato, aveva conservato una neve tutto sommato morbida; e così, ci buttiamo lungo i pendii della conca posta sopra il canale cercando i punti più ripidi per esaltarci di più,  fino ad arrivare al canyon dove io e Mazzo decidiamo di sciarlo tutto d’un fiato, in parallelo, finchè di fiato ne abbiamo.

Purtroppo, terminato il canalone inizia il “ravanage” e dopo aver rimesso le pelli, Mazzo, ci guida come un segugio verso il rifugio, cercando di perdere meno quota possibile. Riusciamo così ad arrivare sopra al Lago Rotondo con le magnifiche luci del tramonto e scivoliamo pigramente verso il nostro alloggio, ben contenti della gita fatta.

Il panorama al nostro arrivo.

Il panorama al nostro arrivo.

Alla luce del tramonto le nostre tracce risaltando ancora di più!

Alla luce del tramonto le nostre tracce risaltano ancora di più!  E per gli amanti della geografia, da sinistra verso destra, Pizzo del Diavolo di Tenda, Diavolino e Grabiasca.

 

Entrati nel locale invernale capiamo subito che sarà una lotta contro il freddo e sistemiamo subito più coperte possibili sopra e sotto ai nostri sacchi a pelo per isolarci il più possibile. Ferra si mette subito a letto per scaldarsi un po’, seguito dopo poco sia da me che da Mazzo, dopodiché prepariamo un thé caldo fondendo la neve in un pentolino per avere un po’ di tepore.

Per non avere solo cibo liofilizzato e barrette chimiche da mettere sotto i denti preparo un piccolo tagliere con il salame e il branzi che ho ben pensato di portare, così da poter fare un piccolo aperitivo prima di cena. Cena che è seguita subito dopo cercando di fondere più neve possibile (ce ne vuole tantissima anche solo per avere mezzo litro d’acqua!) per gustare al meglio i nostri piatti decathlon gourmet ed evitare di mangiare grumi di pasta!

Aspettando la cena.

Aspettando la cena.

Se magna!

Se magna!

Fortunatamente riusciamo a mangiare tutti e tre assieme un “delizioso” riso con pollo al curry, che ci sfama il giusto (fortuna che prima c’erano salame e branzi!) dopodiché iniziamo a pensare a come passare la serata. Subito ci viene in mente di leggere il libretto delle firme che ci riporta all’oramai lontano 2006. Così scorre la serata, tra una lettura e l’altra di storie strampalate e pensieri profondi, con un bicchiere di vino riscaldato sul fornello di tanto in tanto per scaldarci un po’ e, una volta terminato, decidiamo di scrivere qualche parola sull’ultima pagina disponibile (peccato che il libretto verrà sostiuito a breve e pochissimi la leggeranno!). Continuiamo a raccontarci qualche storiella finché, arrivata la mezzanotte decidiamo di andare a dormire… sveglia alle sette!

L’indomani ci risvegliamo sorprendentemente caldi, grazie anche ai cerotti riscaldanti messi sui piedi (di cui peraltro nessuno nutriva forti speranze), tra grugniti vari usciamo dai nostri bozzoli sapientemente studiati per disperdere meno calore possibile e iniziamo a preparare la colazione.

La fatica della sveglia.

La fatica della sveglia.

Tutto sommato siamo pronti nei tempi preventivati la sera prima e verso le otto e mezza iniziamo la risalita verso il Diavolo di Tenda, o almeno ci proviamo, dato che comunque i 1600m di dislivello del giorno prima si fanno sentire.

Come per il primo giorno dobbiamo scavalcare una serie di dossi, per scendere questa volta alla baita di Poris, posta nel fondovalle. Raggiungiamo il primo “checkpoint” dopo circa un’oretta a causa di una traccia iniziale troppo fuorviante che ci ha fatto perdere un po’ di tempo. Da qui la traccia da seguire è più evidente e cominciamo a salire i pendii che portano al passo di Valsecca, all’ombra della parete nord del Grabiasca, che ci consente di non accaldarci troppo. Verso i 2300m di quota deviamo totalmente a sinistra andando a prendere i pendii che portano alla bocca di Podavit da cui poi si sale lungo la cresta nordoccidentale del Diavolo di Tenda.

Il sole è già alto quando arriviamo alla baita di Poris.

Il sole è già alto quando arriviamo alla baita di Poris.

Usciti dalla traccia che porta al passo di Valsecca veniamo baciati dal sole, ma è un sole praticamente primaverile, che ci sfianca ulteriormente, costringendoci a terminare l’acqua a disposizione.

Le nostre convinzioni iniziano a vacillare e nonostante le condizioni per arrivare in vetta siano ottimali iniziamo a chiederci se vale la pena di continuare, ma una meta deve essere raggiunta e decidiamo quindi di arrivare alla bocca di Podavit a 2600m di quota per poi mettere ai voti se continuare oltre o meno.

Mazzo e Ferra con alle spalle l'inconfondibile forma a sigaro del Pizzo Poris.

Mazzo e Ferra con alle spalle l’inconfondibile forma a sigaro del Pizzo Poris e il passo di Valsecca.

 

Verso mezzogiorno arriviamo alla bocchetta e iniziamo ad interrogarci su quale sia la via migliore da seguire per arrivare in cima al Diavolo dato che comunque la neve sembrava stabile e la parete non sembrava nemmeno troppo carica.

Però, stanchezza, fiacche, dolori alle ginocchia e orario (dovevamo anche ripellare per raggiungere il rifugio e poi tornare alla macchina) ci fanno optare per chiudere la gita alla bocchetta dato che non avrebbe senso soffrire inutilmente con l’ansia di dover anche rientrare… tanto le montagne mica si spostano!

Alla bocchetta di Podavit, da adesso si scende!

Alla bocchetta di Podavit, da adesso si scende!

Così, comunque soddisfatti della gita fatta iniziamo a metterci in assetto da discesa e pregustiamo il possibile firn che dovrebbe aspettarci, ma le condizioni si riveleranno non essere molto diverse da quelle del giorno prima.

Io sono abbastanza stanco e non riesco a divertirmi tanto quanto il giorno precedente, cosa che invece riescono a fare i miei compagni di avventura, con Ferra che inizia a trovare il feeling con i suoi nuovi Atomic, regalandoci comunque un’ottima discesa fino alle baite di Poris, alternando tratti belli compatti con “remollo” e senza sorprese, a tratti con neve pesante che ci mettono alla prova.

Cerchiamo di far scivolare i nostri assi il più a lungo possibile finché dobbiamo arrenderci alla gravità a sfavore e rimettiamo così le pelli. Stringo i denti per una ripellata di circa quaranta minuti fino ad arrivare al rifugio, dopodiché mi lascio cadere sulla prima panchina disponibile, totalmente esausto.

Dopo aver mangiato quasi tutto quello che ci rimaneva e aver messo in ordine il locale invernale iniziamo un infinito rientro verso Carona cercando di controllare a fatica gli sci durante la discesa lungo la strada forestale, dato che ormai le gambe hanno la consistenza del burro.

Giunti alla macchina rientriamo subito nel monto civilizzato dopo due giorni di montagna selvaggia e veniamo subito investiti dagli avvenimenti di questi giorni che ci fan capire che questa sarà l’ultima gita per chissà quanto tempo.

Nonostante la faticaccia e la prospettiva di un lungo stop forzato sono comunque contento, perché ho colto l’attimo per vivere un’ esperienza incredibile, che per me ricorda le pagine dei libri di Jack London, che per me… sa di avventura!

Lorenzo

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