Più che una salita, un viaggio. Ero stato avvertito che si sarebbe trattato di una “ravanata epica”, ma non mi aspettavo fino a questo punto. La scalata del Bernina, ancorché non difficilissima dal punto di vista tecnico, richiede tutte le specialità dell’alpinismo classico: progressione in conserva su ghiaccio, scalata in canale, cresta con misto, calate in doppia, ferrata. Qui un resoconto di come l’abbiamo affrontata.
Partiamo con comodo, quattro dei soliti, un gruppetto che negli ultimi due anni ha macinato parecchio insieme: io, Lorenzo, Chiara e Nando.
Il primo giorno è carico di aspettative, come sempre. Si intuisce la lunga progressione del sentiero che dalla diga di Campo Moro sale e poi traversa per interminabili tratti sino a raggiungere il rifugio Carate, guadagnando quota poco a poco. Le gambe fresche non temono nulla, non pensano al domani. Si procede gradevolmente, il clima è caldo, la giornata è bella nel complesso ma non c’è sole battente.
Sopra il Carate il sentiero sale con più decisione arrivando in un’altra oretta di cammino al bellissimo vallone su cui si affaccia, sulla sinistra, il Marinelli. Raggiungiamo il rifugio agevolmente. Un bel rifugio, grande, con tante camerine in legno perlinato, come i migliori italiani. I miei compagni ordinano stuzzichini e rinfreschi con la noncuranza dei bambini in gelateria. Il ricordo dei prezzacci da rifugio svizzero sono lontani settimane. Cerco di moderare ma poi mi adeguo, senza difficoltà. Sulla terrazza qualcuno prova paranchi, mezzi poldi, spezzoni ausiliari. Mi aggiungo volentieri per dire la mia.
La notte trascorre abbastanza serena e la mattina alle 4 siamo fuori. Il cielo è limpido ma l’aria è calda. Ci si preoccupa che il ghiacciaio non abbia fatto in tempo a rigelare come si deve. Si parte per la prima ora su sentiero, poi la neve inizia.
Giunti ad un passo vediamo allargarsi le pendici del ghiacciaio davanti a noi. In alto il rifugio Marco e Rosa. Calziamo i ramponi, ci mettiamo in cordata e procediamo sul piattume gelato buttando l’occhio ad un drappello di guide e clienti che ci precede. Arrivati ai primi veri pendii bisogna decidere: montare sulla sinistra per una ferrata, inaugurata da scalette incerte e notoriamente brutta, oppure tenere l’ampio e ripido canale che porta direttissimi al Marco e Rosa. Le condizioni del ghiaccio sembrano perfette e scegliamo il canalone. La traccia è già fatta, si procede con gusto.
Arriviamo al Marco e Rosa, ci fermiamo brevemente a sgranocchiare una barretta. Il sole è sorto da un po’ ma con esso anche le nubi si sono levate. Il tratto dal rifugio all’attacco della cresta è un pendio largo e costante. Il meteo del momento è il peggiore di giornata. La visibilità è scarsa, inizia a nevischiare. Nessuno lo dice, ma in tutti si insinua il presentimento di aver sbagliato giornata. Mi immagino fra un’ora, mi vedo nella nebbia a constatare con gli altri l’impossibilità di proseguire, a darsi a vicenda le solite consolazioni per la vetta mancata. Penso a Nando che è in testa alla cordata e che già una volta è arrivato vicinissimo alla cima svizzera senza poterci salire.
Inizia la cresta che conduce alla cima italiana e poi a quella svizzera. Misto puro fra tratti gelati e lastroni di roccia. Tutto in punta di ramponi. Nei tratti agibili si fa scorrere la corda nelle crepe fra i massi, i pezzi in arrampicata si proteggono con fettucce e soste al volo. L’incrociarsi con altre cordate rende il lavorio ancora più stressante. Mi diverto sul misto: si procede lentamente, senza fiatone, usando tutto il corpo; la concentrazione continua inganna il tempo. Ma la cresta è lunghissima, il tempo si sta stabilizzando e a tratti la vediamo emergere dalle nebbie. Non fa freddo, ad ogni modo.
Arriviamo in vetta a metà mattinata, abbastanza in linea con l’orario previsto.
Risparmio i dettagli del ritorno. Dirò solo che è stato infinito. Si percorre la cresta al contrario con qualche calata in doppia allestita nei tratti non disarrampicabili. Sotto il Marco e Rosa optiamo per la brutta ferrata evitando la precaria scaletta con un’altra calata. Poco sotto, Nando apre la via su un breve ponte di ghiaccio a cavallo di un crepaccio; ci fermiamo a valutarlo e scavalchiamo in fretta.
Da lì in avanti le difficoltà sono tutte alle spalle, e ci si può rilassare per davvero. Di conseguenza la mente corre a ritroso verso la macchina: è ancora così lontana che potrebbe essere su un altro pianeta, per quanto ci riguarda. Mi sento sciocco solo ad averci pensato. Il sole è basso nella vallata sotto al Marinelli e infuoca i torrenti che discendono dai monti vicini. Il panorama mi distrae un pochino. Siamo a pezzi. C’è chi chiacchiera e chi tira dritto per far finire prima la discesa. Arriviamo alla macchina con il primo buio.
Fra gli amici nel nostro gruppo alpinistico sono noto, ormai da anni, come “l’uomo delle grandi occasioni”. L’appellativo all’apparenza lusinghiero censura invece la condotta di chi, irraggiungibile per la maggior parte dell’anno, ricompare puntualmente qualora vi siano salite prestigiose in programma. Mio malgrado devo ammettere: sono colpevole. Gli anni dell’università sono trascorsi meravigliosamente, nel torpore fluviale della pianura pavese, in quell’aria mite che mi ha sempre ricordato, non so perché, quella di una città di mare; in parte a Leuven, poi Londra, poi Dublino; bellissimi periodi, ma sempre lontano dai monti.
Per non mangiarmi le mani dall’invidia settimana dopo settimana, non ho voluto sapere cosa facessero i miei compagni nelle domeniche sulle pelli. Quando però arrivava la soffiata che qualcosa di importante bolliva in pentola, ero subito in allerta. Qualcuna me la sono persa, era inevitabile. Il Palù con gli sci è forse l’assenza che più rimpiango, ma per l’alta quota ci sono sempre stato.
Questo inverno, per la prima volta dopo anni, ho potuto tornare ad essere uno del giro. Tutte le meraviglie dell’inverno a casa sono tornate alla memoria, ora godute con una consapevolezza che non avevo anni fa, prima di allontanarmi da Bergamo. La gara a inaugurare la stagione, il meteo da tenere controllato, il conto delle vette, dei metri saliti, dei chilometri percorsi; programmare, informarsi, confrontarsi sulla meta; sentire la propria condizione fisica crescere, le ginocchia irrobustirsi, le gambe farsi più dure; recuperare la familiarità con quei gesti precisi, competenti, misurati che fanno tutta la differenza sulla roccia. Il segreto piacere di presentarsi alla serata con gli amici stordito dalla fatica – solo tu puoi sapere quanto il solo uscir di casa sia stato un vero atto di eroismo, e va bene così -; le immagini ancora vivide dei posti che ti circondavano la mattina, così diversi dalle stanze degli uomini, così remoti, così impossibili da spiegare a chi ti vuole bene e non capisce.
Ora mi preparo a trascorrere i prossimi tre anni in Germania, Sassonia, altro posto dove la terra è piatta. Quanto è stato bello tornare uno del gruppo. Quanto è triste non poterlo essere di nuovo. Mi mancheranno i monti, mi mancheranno i miei compagni. Terrò allenate le gambe per la prossima grande occasione.
Matteo Ferrante
Dalle tue parole traspare il gusto agrodolce di riprendere la via del viaggio e lasciare amici e hobby a casa. Ma non temere saremo qui ad aspettarti per le prossime salite “delle grandi occasioni” amico mio!
Nando
Grazie Presidente. Sursum corda.